Per orientare la nostra preghiera

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17, 5-10)

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Parola di Dio

 

Preghiamo

 

 

Preghiamo il Signore perché, davanti al male del mondo non smettiamo mai di sperare e di attendere la pace, mettendo tutte le nostre forze, con umiltà e senza timore, a servizio del Vangelo. Preghiamo

 

Signore ti preghiamo per Papa Francesco e per tutta la Chiesa perché animata da fede ardente compia il suo generoso servizio a favore dell’umanità intera e per la pace. Preghiamo

 

Ti preghiamo Signore per i profughi e i rifugiati, per tutte le vittime del mare, mentre ci prepariamo a ricordare il terribile naufragio di Lampedusa del 2013; perché il Signore tocchi le menti e i cuori di tanti e li renda vulnerabili al grido della loro disperazione. Preghiamo

 

Preghiamo il Signore perché, di fronte agli sconvolgimenti della storia, sentiamo la presenza di Dio che ci è vicino e non smette di guidare il suo popolo e di orientarlo verso il futuro; preghiamo ancora per la pace in Ucraina e ovunque c’è guerra. Preghiamo

 

 

Per nutrire il nostro cuore

 

 

Servire alla Mensa del Signore

Chi di voi, se ha un servo che ara o pascola il gregge, al suo ritorno dal campo gli dice subito: “Vieni, mettiti a tavola”, e non gli dice: “Vieni, raccogliti le vesti e servimi, finché io mangi e beva, e dopo anche tu mangerai e berrai”. Dopo aver compiuto i loro lavori e dopo aver dato grandi e numerose prove di potenza, gli apostoli si credevano veramente utili, ma affondavano nel fango della carne e nella polvere di questo corpo e non sapevano di essere inutili. Ma ciò si comprende quando Giuda tradisce, Pietro nega, Giovanni fugge e tutti lo abbandonano, affinché apparisse il solo nel quale era e dal quale era ogni utilità.

Quanto all’aver detto: Dopo mangerai tu, ammonisce i discepoli a desiderare ardentemente, dopo la sua ascensione, di unirsi subito al Signore nella beatitudine superna. Infine conforta i discepoli che stava per lasciare quaggiù, li rafforza per affrontare la sofferenza e li rende idonei a sopportare la fatica di servirlo. Infatti allora gli apostoli servirono il Signore a tavola per tanto tempo, per quanto tra le cucine dei peccatori e i fuochi dei pagani prepararono sulle mense della Chiesa la cena del Signore a perpetuo ricordo. Conosce questa cena chi è fedele; chi non la conosce, desideri di conoscerla per essere fedele. 

(San Pietro Crisologo)

 

Avere la stessa fede è grande grazia

Gli apostoli avevano ben compreso che tutto ciò che riguarda la salvezza viene da Dio come un dono, perciò domandarono al Signore anche la fede: “Signore, aumenta la nostra fede” (Lc 17,5). Non si aspettavano questa virtù dal loro libero arbitrio; credevano, invece, di poterla ricevere esclusivamente dalla magnificenza di Dio. Inoltre, lo stesso autore della nostra salvezza insegna a riconoscere quanto sia fragile, malata e non bastevole a se stessa la nostra fede, senza l’aiuto divino: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno” (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo in sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso sicuro naufragio, si rivolse al Signore, dicendo: “Signore, aiuta la mia incredulità” (Mc 9,23).

Gli apostoli e gli altri uomini che figurano nel Vangelo avevano capito che nessun bene si compie in noi senza il divino aiuto; erano persino convinti di non poter conservare la fede, affidandosi alle sole forze della ragione, o alla libertà dell’arbitrio, da chiedere che questa fede venisse posta e conservata in loro. Se la fede di Pietro, infatti, aveva bisogno di Dio per non venir meno, chi sarà cosi presuntuoso e cieco da credere di poterla serbare senza quell’aiuto? Non è forse il Signore stesso a dichiarare la nostra insufficienza quando afferma: “Come il tralcio non può produrre frutto se non resta unito alla vite, cosí nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4)? E ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5)? Quanto insulso e sacrilego sia, dunque, attribuire alcunché delle nostre azioni al nostro saper fare, e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una sentenza accusatoria del Signore, che afferma che nessuno può senza la sua ispirazione e il suo aiuto cogliere frutti spirituali: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17). E del pari Zaccaria: “Cosa c’è di buono o di bello che non gli appartenga? (Zc 9, 17). Per Paolo, poi, è una nota costante: “Che cos’hai che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne glori come se non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4,7).

Persino le possibilità di tolleranza che possiamo dispiegare nel sostenere le tentazioni, non dipendono dalla nostra virtù quanto piuttosto dalla misericordia di Dio e dalla sua moderazione, come si esprime in proposito il beato Apostolo: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti, Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,13). Il medesimo Apostolo insegna che Dio adatta e consolida i nostri spiriti per ogni buon operare, ed opera in noi quelle cose che sono secondo il suo beneplacito: “Il Dio della pace che ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un’alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà, operando in voi ciò che è a lui gradito per mezzo di Gesù Cristo” (Eb 13,20-21). Perché poi lo stesso avvenga per i Tessalonicesi, così prega, dicendo: “E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene” (2Ts 2,16-17).

Il profeta Geremia, da persona di Dio, afferma senza mezzi termini che anche il timore di Dio ci è infuso dal Signore. Cosí egli dice, infatti: “Darò loro un solo cuore e un solo modo di comportarsi perché mi temano tutti i giorni per il loro bene e per quello dei loro figli dopo di essi. Concluderò con essi un’alleanza eterna e non mi allontanerò piú da loro per beneficarli; metterò nei loro cuori il mio timore perché non si distacchino da me” (Ger 32,39-40). Del pari Ezechiele: “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne, perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica; saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio” (Ez 11,19-20).

Da tutto ciò siamo più che edotti che l’inizio della buona volontà in noi si ha per ispirazione di Dio, vuoi perché egli stesso ci attrae verso la via della salvezza, vuoi perché si serve delle esortazioni di una persona qualsiasi o della necessità o della perfezione delle virtù o di cose simili. La nostra parte sta in questo: noi possiamo, con più fervore o con più tiepidità eseguire l’esortazione di Dio e appoggiare il suo aiuto, e qui risiede la nostra possibilità di merito o di castigo appropriato. Quindi, ciò che per sua elargizione e provvidenza è stato a noi dato con benignissima degnazione, sarà per noi causa di premio o di castigo in dipendenza di quanto lo avremo trascurato o ci saremo studiati di aderirvi con la nostra devota obbedienza.

(Giovanni Cassiano, Collationes, 3, 16-19)